Andare ad Iruya è stata la degna continuazione dell'avventura sulla Puna.
Ad attendermi, nel terminal di Humahuaca, ci sono due autobus che nella migliore delle ipotesi sono degli anni '60, e una marea di indios che hanno con sé l'impossibile, pacchi enormi, sacchi di plastica giganteschi, sembra un esodo vero e proprio (il perché l'avrei capito solo il giorno dopo).

Si carica tutto sul tetto dell'autobus, sembra davvero di stare a Cuba. Non si capisce poi come facciano a riconoscere i pacchi, alla fine, visto che sono quasi tutti avvolti dalla stessa plastica azzurra. Cominciamo la traversata verso Iruna. 54 chilometri, tre ore di percorrenza prevista. Ne capisco il motivo poco a poco. All'inizio la strada è tutto sommato decente, un paio di guadi ma niente di trascendentale. Penso che quasi quasi avrei potuto farcela, con la macchina, ma quelli dell'agenzia mi avevano decisamente scoraggiato.

Si sale tra le montagne, in mezzo alle montagne, dentro le montagne. Facciamo una fermata in una paese che è laddove non avrebbe ragione d'essere. Eppure c'è, e c'è gente. Si sale, si sale, attorno a noi ancora vigogne selvatiche e asini, tanti asini. Arriviamo al passo che non ci abbiamo messo neanche troppo: sono i soliti 4000 metri, sembra quasi che se non ci arrivo almeno una volta al giorno non sono contento, ormai. Sul passo si cambia di provincia: da Jujuy si torna a Salta. E, come spesso accade, dopo il passo cambia il paesaggio, ma cambia anche, e decisamente, la strada.

Strada? Non è una strada, questa, ora me ne accorgo, non si può nemmeno definire mulattiera, è un sentiero scavato sul dorso di montagne ripidissime, è un accenno di cammino largo nemmeno quanto una macchina, e noi invece ci stiamo sopra con un pullman stracarico di persone e bagagli di ogni sorta.

I tornanti si fanno sempre più frequenti, orridi e strapiombi sono a un passo dalla ruota. Guardo avanti e non capisco dove possa andare a finire, questa cosa che chiamano strada. La valle si stringe sempre più, costoni di roccia che si fa via via più colorata ma anche più minacciosa si avvicinano sempre più pericolosamente ai finestrini.
Facciamo fermate in luoghi dove non c'è nessuna traccia di presenza umana, eppure c'è qualcuno che sale, o che scende. Ogni tanto, in lontananza, una casa di mattoni cotti al sole, che quasi si mimetizza: ma che fa lì, è un posto impossibile, impossibile arrivarci, ma anche se ci arrivi, poi?

Il paesaggio è sempre più mozzafiato (in senso letterale), scendiamo lentamente, i chilometri passano con una lentezza esasperante.

Poi, dietro una curva, eccolo: Iruya, il paesino arroccato nella valle, dove questa pseudostrada finisce. Saluto al volo le due ragazze di Buenos Aires che ripartono con il mio stesso autobus e mi dirigo nell'hostal consigliato per mangiare qualcosa (ero come al solito senza colazione, ma vista la strada, meglio così!). La montagna davanti a Iruya è impressionante. Mi riposo un po', poi faccio un giro. Non ci vuole molto, Iruya è davvero piccolissimo. Qui la povertà è palpabile, d'altra parte siamo vicinissime al confine con la Bolivia.

Epperò c'è una bellissima scuola con il campo da pallavolo/basket, e c'è una mega parabola per il telefono e la tv. Mi inerpico sul belvedere che il sole sta già quasi nascondendosi dietro le montagne, c'è un gruppo di ragazzi/turisti che mi parla di una fiesta il giorno dopo. In effetti, scendendo, noto un insolito movimento di auto, carretti e asini per un paese così piccolo. Ci si prepara per la grande festa. Dopo una cena a base di tuberi locali (qua ci sono una quantità impressionante di tipi di patate diverse!), e mentre mi stupisco del collettivismo del paese (ci si riunisce in una grande sale per prendere le decisioni sulla festa, e quando manca qualcuno viene chiamato dall'altoparlante messo in cima al campanile...), vado a dormire presto. Domani mi aspetta un'altra scarpinata notevole, e questa volta non in piano.

Quando mi alzo, la mattina dopo, dopo un'altra fredda notte (nonostante la stufa accesa), faccio una lauta colazione e chiedo informazioni sul sentiero per San Isidro, che mi hanno consigliato. La tipa non sembra convinta, dice che ci vogliono più di due ore. A me avevano detto 4 tra andata e ritorno, a Salta. Io ho esattamente 4 ore prima della partenza del colectivo. Mi avvio, con l'idea di tornare indietro dopo 2 ore anche se non sono ancora arrivato.

I primi 3 chilometri sono quasi tutti in discesa, e questo fa aumentare le mie preoccupazioni per il ritorno. Però le montagne sono bellissime, con i loro tanti colori. Poi si cambia quebrada, devo seguire un altro fiume, e questa volta è una bella salita, e il fiumiciattolo è abbastanza in forze, in quanto ad acqua.

Salgo mentre il sole comincia a sbucare dai monti e a bruciare. Incontro decine e decine di indios, a piedi, a cavallo o sull'asino, ma vanno tutti in direzione contraria alla mia, verso la festa che di giorno è più che altro mercato: tutti portano i loro prodotti per scambiarli o venderli.
Io continuo, “in direzione ostinata e contraria”, come direbbe un certo cantautore italiano. Con me c'è un cane che mi segue da Iruya. E' la seconda volta, dopo San Lorenzo. Forse sanno che se ti accompagnano e ti fanno da guida poi avranno qualcosa in cambio. Intanto lui viene, mi precede, mi aspetta, abbaia agli asini selvatici che qui hanno la fastidiosa abitudine di “caricarti”, come può caricare un asino certo, ma sempre meglio avere qualcuno che ti difende.

La salita è più lenta non solo perché ovviamente più faticosa, ma anche perché bisogna attraversare decine di volte il fiumiciattolo. E non sempre è facile, anche se ci sono delle rocce messe lì apposta. Però la corrente è forte e spesso le rocce sono bagnate, oppure un paio sono state portate via e bisogna trovare un altro punto più a valle o più a monte. Io vado avanti e saluto tutti quelli che incontro. Un paio di volte chiedo informazioni per sapere quanto manca. Sto pur sempre lottando anche contro il tempo. Ma ormai è una questione di principio e a San Isidro ci voglio arrivare.

Arrivo al mulino che è a solo un chilometro, e vado avanti più spedito, anche perché ho già superato il tempo limite che mi ero prefissato per il ritorno. E poi, dopo uno degli attraversamenti del fiume più difficile, eccolo lì, San Isidro, minuscolo paesino che non si sa come e perché si trova in questa valle dimenticata da Dio.
Non ho fatto l'ultima salita, gli ultimi 500 metri, perché ormai ero già ampiamente fuori tempo massimo. Ma l'importante era arrivare a vederlo, arrivare fin lì.

Non sapevo che il ritorno sarebbe stato molto più veloce, un po' perché c'era più discesa un po' perché sapevo già in che punti guadare il torrente, e poi avevo scoperto delle scorciatoie degli indios che facevano risparmiare qualche guado.
E così torno ad Iruya addirittura in anticipo, dopo solo 3 ore e mezza. Ho pure il tempo di vedere un po' il mercato, che è un mercato strano, non per turisti ma ad uso e consumo dei locali (e non ce ne devono essere molte, di occasioni di commercio, e infatti tutti compravendono e scambiano cose). C'è un po' di tutto e tutto mischiato. Quello che mi colpisce è anche perfino qui, sarà la televisione, i ragazzi cercano e si vestono allo stesso modo, un po' rapper americani diciamo.
Alla fine, galvanizzato da questa ennesima camminata sotto il sole (stavolta però un pochino mi sono spellato, in fronte, e nonostante che di acqua per bagnarmi ne avessi a iosa), provo a sfidare Montezuma che finora non mi ha miracolosamente sfiorato, e pranzo (e poi a Humahuaca merendo pure) da uno dei tanti invitanti ambulanti che stanno lì a cuocere carne all'aperto. Forse l'igiene non è la loro preoccupazione principale, ma il panozzo è buonissimo. E poi, sono sopravvissuto ai famigerati “fish kebab” pescati cotti e mangiati sulle inquinatissime acque del Bosforo, quindi...
Insomma, prendo le valigie dalla tipa che non si fidava delle mie forze, e forse ancora tronfio della vittoria appena conseguita (devo ammettere che dopo questa ennesima supercamminata per di più in montagna ho i polpacci del Rumenigge dei tempi d'oro... in effetti sono pronto per il cammino di Santiago) commetto l'errore fatale: sull'autobus che mi deve riportare a Humahuaca, mi siedo esattamente dietro l'autista.
Così, per vedere meglio.
Ma nella vita ci sono cose che è meglio non sapere, e la verità su quello che succede alla guida di questi autobus è una di queste.
Mai, mai, non fatelo mai: meglio sedersi dietro, rimanere nella vostra beata ignoranza, godersi il panorama senza chiedersi come fa l'autobus a rimanere in carreggiata.
Innanzi tutto, dietro l'autista significa a sinistra, e quindi vedevo ogni volta che abbassavo lo sguardo a quanta distanza (meglio, a quanta non-distanza) la ruota passava dal bordo: mezzo metro mediamente, ma spesso pericolosamente meno, e oltre, senza nessun tipo di protezione, uno strapiombo di decine di metri.

Poi, nei tornanti, l'autista allarga talmente tanto che sembra che la parte anteriore sinistra dell'autobus galleggi nel vuoto...
Poi, l'autista: si distrae spesso e volentieri, guarda l'ora sul cellulare, prende continuamente delle caramelle che ha vicino alla portiera, ma naturalmente vuole ogni volta scegliere il colore e quindi il gusto... E poi si gira a guardare il paesaggio, come se non lo conoscesse. A volte il tipo che controlla e fa i biglietti viene avanti e si mettono a parlare animatamente, e io penso “nonlodistrarrenonlodistrarrenonlodistrarretipregotipregotiprego...”
E poi, la cosa peggiore: l'impresa concorrente, la Panamericana, ha un unico autobus che parte 15 minuti dopo il mio. Ma evidentemente l'autobus è più nuovo o più vuoto, perché dopo una mezz'ora di viaggio l'autista si guarda nervosamente indietro, e lo vede, e anche io con lui: l'autobus giallo di Panamericana ci tallona, e guadagna strada. Il mio pazzo autista comincia a prendere i tornanti senza rallentare, certe volte non entra la seconda e lui si incazza, guarda continuamente indietro, ma non c'è niente da fare, il Panamericano si avvicina sempre di più.
C'è solo una cosa a nostro vantaggio, che probabilmente è quella che ci salva la vita: il Panamericano non potrà mai sorpassarci, su questa pseudostrada.
Ma l'autista pazzo non vuole fare il tappo della situazione, si sente come un pilota di formula 1 con una macchina scarsa ma su un circuito dove non c'è possibilità di superare, è lì che fa sbuffare l'autobus oltre le proprie possibilità meccaniche e gravitazionali.
Va, mentre la gente ogni tanto scende in luoghi dove non c'è assolutamente nulla, all'orizzonte, forse devono fare ancora qualche chilometro a piedi, in salita, e dall'altra parte c'è qualcosa che la visuale dei monti impedisce di vedere.
Ma c'è qualcosa che sbaraglia tutti i piani di vittoria dell'autista: oggi è venerdì, e dalle incredibili scuola d'altura di queste parti escono tutti gli alunni per tornare a casa per in fine settimana, dopo aver dormito a scuola dal lunedì. Entrano decine di bambini, e ad una di queste fermate, per fortuna dopo il passo e quindi nella parte meno brutta della strada, il Panamericano ci sorpassa strombazzando per lo scherno.

Siamo stati battuti, ma almeno ormai non abbiamo niente da perdere. Nell'unica fermata vera e propria che facciamo, un terminal di un paese a metà strada, il Panamericano è già arrivato e gli autisti si scambiano battute complici e amichevoli.
Evidentemente per loro è un gioco.
Per me non lo è stato, stavo quasi per cercarmi una religione, una qualsiasi, giusto per chiedere una grazia. Fortuna non ho fatto in tempo a sceglierne nessuna... Infatti, sorry, ma niente foto, ero troppo occupato a rimanere vivo.
Insomma, se vi dovesse capitare, restate incoscienti e felici e sedetevi dietro, sul folle autobus tra Iruya e Humahuaca.
E comunque, è incredibile come questo paesino rimanga aggrappato tenacemente al mondo esterno, tramite questa unica strada che quando piove non è percorribile, e sicuramente anche quando d'inverno i fiumi sono in piena, visto che la strada li attraversa più volte.