venerdì 30 maggio 2008

El bazar de los abrazos

Mi sembrava giusto salutare Buenos Aires in una milonga, promessa di un aspetto della città che ho solo sfiorato, per riservarlo come tutto da scoprire la prossima volta che questi luoghi mi ospiteranno.

Mi sembrava anche qualcosa più di una coincidenza che proprio la mia ultima sera cominciasse il Campionato di tango metropolitano, un mese di appuntamenti nelle migliori milonghe della città prima delle semifinali e della grande finale di luglio. E' qualcosa di diverso dal gran festival del tango che si tiene ad agosto, questa è una manifestazione più piccola, rivolta più che altro ai portegni, che gira le milonghe più piccole e tradizionali, più che i grandi locali eleganti.

La milonga di oggi, poi, avevo letto che era una di quelle più autentiche e anche una delle poche aperte il pomeriggio (il tango è un affare notturno, e infatti in molte altre milonghe del campionato si comincia a mezzanotte...). Naturalmente quest'ultimo fattore ha reso El Arranque una milonga molto frequentata da ballerini anziani, ma questo la rende ancora più attraente e malinconica, se è possibile che una milonga sia più malinconica di un'altra.
Appena entrato, dunque, inforco i miei occhiali da antropologo e, dopo essermi guadagnato un posto in seconda fila (arrivando un'ora prima...), osservo tutto con gran fame di capire i misteri di questi luoghi.
Bazar de los abrazos è, oltre a una splendida definizione della milonga, il titolo di un libro che erano due o tre anni che aspettavo di leggere, da quando avevo letto un articolo di Repubblica sul tango a Buenos Aires. Lo trovate qui (comincia in prima pagina e continua a pag.2), ve lo consiglio più che caldamente, tra l'altro contiene un passaggio bellissimo, questo:
Ora che sono a loro volta “intrappolati” in antiche note, i giovani rammentano quel che dicevano i vecchi quando anche in Argentina il rock sembrava la risposta ad ogni domanda: “Il tango ti aspetta, non ha fretta. Puoi incontrarlo e non riconoscerlo, tanto prima o poi gli cadi tra le braccia".
Dopo due mesi di attenta perlustrazione delle librerie di mezza Argentina (devo dire che esplorare le librerie argentine è comunque un grande piacere) alla fine ho trovato il libro tre giorni fa. E' scritto da una psicologa (ma guarda un po'!?) che quindi guarda alla milonga e ai suoi abitanti con uno sguardo attento e complice. La milonga la definisce “sala de guardia permanente para los enfermos de tango, de vida, de encuentro, de suenos”.
E' difficile carpirne i segreti, leggere i codici misteriosi nascosti in gesti e sguardi appena accennati, capire banalmente come fanno qualche decine di coppie vicinissime tra loro a danzare questa danza a occhi chiusi senza mai scontrarsi tra loro, quasi che ci fosse un magnetismo che li avverte dello spazio disponibile attorno, sembra un gioco a incastri dove si libera uno spazio e immediatamente viene occupato, e tutti girano in tondo, ma non a caso in senso antiorario, come se si andasse contro il tempo, e in effetti un po' è così, il tempo non solo è sospeso ma scorre indietro, per la durata dei tre o quattro tanghi che una coppia balla insieme, prima di sciogliere l'abbraccio e forse non rivedersi mai più.
Animal de dos cabezas, un sol cuerpo y cuatro patas. Ser mitologico mitad hombre y mitad mujer. Monstruo de piel morena con piel clara, piernas vestidas y desnudas, brazos fuertes y brazos fragiles.
E' incredibile osservare come tutto cambia non appena parte la musica, dopo la canzone di “alleggerimento” che non si balla, che non è un tango e serve solo a far sciogliere le coppie, per poi ricomporle sempre diverse. Guardi due volti che fino ad un secondo prima magari si stanno scambiando una battuta, stanno ridendo, e poi, un attimo dopo, un abbraccio lento e intenso come se fosse l'ultimo, e il volto di lei diventa quello dell'abbandono, a occhi chiusi, mentre lui, sguardo fisso a terra, un po' obliquo, o occhi chiusi anche lui, si fa venire quella che non posso che definire come la “ruga del tanguero”, aggrotta la fronte e la sua espressione diventa grave e triste, malinconica e un po' disperata. Come se scattasse qualcosa, un meccanismo interno, misterioso, che ti permette di ballare solo se entri in quello stato d'animo, che è quello dei testi dei tanghi dopotutto.
Bisogna stare attenti, con il tango, andarci piano perché è una droga fortissima, se ti prende non ti lascia più, sei perduto per sempre. Bisogna prenderlo a piccole dosi e essere coscienti, quando si comincia a ballarlo, che non si sarà in grado di controllarlo, indipendentemente dalla propria forza di volontà.
Per la cronaca, la mia coppia preferita (che, lo ammetto, era preferita anche perché la ragazza era di una bellezza straordinaria - ma poi chissà, magari era solo il vestito, o l'eleganza e la sensualità dei suoi movimenti), non è passata, né con il voto della giuria né con il voto del pubblico.
Erano un po' delusi, ma sono giovani e ballano molto bene, avranno tempo di rifarsi...

mercoledì 28 maggio 2008

Sulle tracce del Tren a las nubes

Allora, un bel flashback indietro di tre settimane ed eccoci di nuovo a Salta. Ci arrivo un sabato pomeriggio e nelle vie del centro c'è il delirio, sono piene di gente che va in giro a fare compere...
Trovo un'agenzia aperta e prenoto un'escursione per il giorno dopo, che è domenica e non vorrei ritrovarmi a piedi.
Chiedo se c'è un posto per comprare un paio di scarpe e il tipo dell'agenzia sorride divertito, e mi dà tre o quattro indirizzi. Capisco perché della risata a stento trattenuta subito dopo: ci sono due o tre strade che sono letteralmente un unico negozio di scarpe, decine e decine unodietrolaltro, senza soluzione di continuità. Un incubo, per me che mi annoio dopo 5 minuti quando devo comprare qualcosa di abbigliamento, e poi tutta quell'offerta ti stordisce.
Non volevo comprare un altro paio di scarpe da trekking, e visto che non ho più scarpe da ginnastica provo a trovare un compromesso onorevole. Anzi ne approfitto per ringraziare le due amiche svizzere che a suo tempo mi avevano consigliato la marca giusta: si è rivelato un consiglio più che azzeccato, mi sono trovato benissimo nonostante fossero nuove e non rodate e nonostante tutte le mie difficoltà con le scarpe...
Insomma, ero pronto per nuove incredibili avventure.
L'attesa per Salta era molto alta, era l'unica destinazione oltre alla capitale che non volevo mancare. Buona parte del fascino, oltre alle fotografie che mi ha fatto vedere Roberto L., era dovuto alla voglia di salire sul mitico “tren a las nubes”.
E' un treno che percorre quasi 220 chilometri passando da 1200 metri a 4200 (che lo rende il terzo treno più alto del mondo), ma senza essere un treno a cremagliera, con strani zigzag, attraversando 29 ponti, 21 tunnel e 13 viadotti. Il paesaggio è quello incredibile della Quebrada del Toro, fino a salire e salire ed entrare in piena Puna.
L'attrazione verso questo viaggio era fortissima, un po' potete capirla guardando le foto del sito. Anche perché da due o tre anni il treno non è in funzione, e informandomi prima di partire dall'Italia sembrava che dovesse essere di nuovo inaugurato proprio ad aprile... Fortunatissima coincidenza, ho pensato io.
Invece no, perché i lavori per ripristinare il percorso sono in ritardo e sembra che non riaprirà prima dell'estate (la nostra).
Allora, per consolarmi della cocente delusione, ho preso una escursione di due giorni che in parte ripercorre lo stesso tragitto del famoso treno.
Si parte all'alba da Salta e si comincia lentamente a salire. Presto si entra nella Quebrada del Toro, che all'inizio è caratterizzata da una ricca vegetazione, da sperdute case degli indios, che terrazzano il terreno dove non sarebbe neppure pensabile farlo, e dai binari del treno che seguono normalmente l'altro costone della montagna. Un paio di volte ci fanno scendere per attraversare i ponti di ferro sulla Quebrada, dicendo, scherzando, che il pullmino non ce la fa con tutti sopra... In realtà le fermate iniziali servono più che altro per abituare i polmoni alla salita. Ci fermiamo anche nei pressi di un ponte del tren a las nubes, che ci lasciano percorrere, se vogliamo, a piedi. Fa piuttosto impressione perché non ha nessuna protezione laterale, e sotto le traversine vedi un bel salto nella Quebrada...
In realtà è ancora presto, il sole non è ancora entrato nella Quebrada e noi siamo ancora assonnati. Ci offrono caffé e alfahores e ripartiamo.
La guida è Martin, la migliore che ho trovato nelle settimane saltegne, e nel gruppo dell'escursione si crea subito un sottogruppo di “jovines” di quattro persone, io, la coppia di olandesi con cui poi ho continuato affittando la macchina e una ragazza di Buenos Aires, Ana Maria. Ana Maria e Arien lavorano entrami all'aeroporto (naturalmente Ana Maria a Buenos Aires e Arien ad Amesterdam) però Arien è anche un fotografo (ha una signora macchina con ben tre obiettivoni), e lavora per riviste di skateboard fotografando gli skaters.
Manon invece fa un lavoro bellissimo: lavora per una organizzazione governativa olandese che, raccogliendo fondi dalla lotteria e da privati, si occupa di aiutare progetti (soprattutto tipo microcredito ma non solo) nei paesi in via di sviluppo. Molto spesso, diciamo 3-4 volte l'anno, la mandano in missione più che altro per stabilire dei contatti personali con le comunità locali, e così lei gira il mondo quasi sempre in posti incredibili, e per di più lo fa anche per una nobile causa (mi ha spiegato nei dettagli alcuni dei progetti finanziati e sembra davvero che funzionino).
Comunque, saliamo e la vegetazione comincia a farsi più rada, cominciano ad apparire i cardones, si diradano anche i piccolissimi insediamenti degli indios (tranne le scuole che sputano sempre fuori nei luoghi più assurdi), le montagne, private dal verde delle piante, scoprono il loro manto multicolore. Saliamo e saliamo, ammirando di tanto in tanto le acrobazie dei binari del treno (non usare la cremagliera lo costringe a evoluzioni notevoli per superare i dislivelli più difficili).
Martin ci consiglia di dare fondo alle nostre scorte di foglie di coca, e ci spiega tutte le loro virtù. Arriviamo infine a Santa Rosa de Tastil, il “paese” più grande prima del passo. Ci fermiamo per sgranchirci le gambe, c'è poco più di una chiesetta, una scuola, qualche negozio per turista e pochissime case. C'è anche un minuscolo museo che racconta le usanze degli indios che prima abitavano numerosi l'insediamento. Un poco più in alto una piccola deviazione su una strada incredibilmente pericolosa ci porta alle rovine di Tastil, uno degli insediamenti più importanti dell'era pre-incaica. Le rovine sono molto grandi, anche se faticose da esplorare perché tutte arroccate, e a queste altitudini (siamo quasi a 4000 metri) inerpicarsi è faticoso. Sembra comunque che ci fossero circa 3000 persone che abitavano questo che era un centro importante perché in posizione strategica per l'attraversamento delle Ande.
Torniamo sulla nostra strada e continuiamo a salire, fino a raggiungere il nostro agognato passo, laddove la quebrada si stringe sempre più attorno a noi. Dall'altra parte, eccola, la Puna. Il tempo di scendere un po', dopo il passo, e ci troviamo in questo incredibile altipiano.
Ci fermiamo subito, però, nel paese di San Antonio los Cobres, che è vicino al punto di arrivo del tren a las nubes (in realtà è poco più in là, è il viadotto della Polverilla, il più spettacolare, a 4200 metri).
San Antonio è lì, polveroso e al centro del mare di Puna.
Ci sono persino delle case popolari ordinatissime e nuove di zecca. Edilizia popolare in altura. Andiamo a mangiare e provo persino a bere il tè fatto con le foglie di coca, che in realtà sembra una tisana...

Non c'è tantissimo da vedere, San Antonio è più che altro una ottima base per esplorare la Puna o le Ande. Però fanno salire due bambini appena usciti da scuola che ci racconta un po' il paese e poi ci recitano poesie, deliziosi.
Ripartiamo e ci addentriamo dentro la Puna su una strada di terra rossa, non ci sono indicazioni e sarebbe facilissimo perdersi, ad andarci da soli...
Ci sono vigogne che ci attraversano le strada, contadini o pastori che improvvisamente spuntano, in mezzo al nulla, vicino a nulla, che ti chiedi che stiano facendo, lì... Le poche casette sperdute sono quasi mimetizzate, sembra di stare in un deserto (e in effetti la Puna lo è) ma abitato, con piante, animali e qualche uomo, di tanto in tanto.
Poi, da lontano, una macchia di luce bianca, sembra un riflesso ma si fa sempre più grande e abbagliante: la Salinas Grandes. Al centro della Puna, alla congiunzione tra due mitiche strade, la ruta 40 e il cosiddetto “corridoio bioceanico”, una strada che unisce i due oceani passando le Ande in uno dei pochissimi posti (l'altro credo sia a Mendoza) dove è possibile farlo tutto l'anno, anche in inverno. Tutti mi hanno detto che tra l'altro la strada che porta al Cile da qui è bellissima, dopo il Paso de Jama ci vogliono ancora quasi 300 chilometri per incontrare il primo paese cileno...
Con il furgone entriamo nella salina e ci fermiamo proprio in mezzo. Il bianco è abbagliante, il sole è fortissimo e raddoppia la sua intensità sul sale.
I locali, tra cui alcuni artigiani che vendono oggetti ai turisti, sono completamente coperti, compreso uno specie di passamontagna e occhiali da sole, che fanno tanto terroristi più che commercianti. Questo perché le condizioni di lavoro (o di vita) sulla salina sono incredibilmente dure, in pochi anni il vento che porta il sale provoca il cancro alla pelle, e ci vuole ancora meno per diventare ciechi, bastano pochi mesi.
Assurdo come una cosa così bella, un deserto di sale, possa essere così crudele. In effetti è difficile tenere gli occhi aperti, è difficilissimo scattare foto, con il sole che non ti fa vedere niente di quello che stai inquadrando...
Il sale poi forma a terra dei disegni geometrici, e la sensazione fortissima, tra le Ande sullo sfondo, la Puna tutt'attorno e tutto quel bianco a perdita d'occhio, è quella di stare all'interno di un paesaggio non terrestre, ma di qualche altro pianeta.

C'è anche una panchina, lì, in mezzo alla salina. Surreale.
Al ritorno purtroppo mi sono perso tutto il paesaggio del passo, a parte un paio di fermate, perché alla salina abbiamo caricato 4 persone di un altro furgone che si era rotto, e ovviamente a cedere i posti a sedere è toccato a me e Arian...
Peccato perché il paesaggio sembrava incredibile, con questa strada che si arrotolava a valle, dopo il passo...
Arriviamo nel paese di Purmamarca, dove noi ragazzi ci fermiamo a dormire, mentre gli altri proseguono e tornano a Salta.
Ma di Purmamarca vi parlerò un'altra volta.



 










martedì 27 maggio 2008

Cibo per tutti i gusti

Allora, in attesa di trovare un po' di tempo per raccontarvi del Noroeste (sono clamorosamente indietro), vi aggiorno sui cibi locali, che è sempre un argomento facile facile.
Una delle cose che mi ha colpito di più mentre ero nel Noroeste è stato il locro, una specie di stufato iperproteico che non a caso si mangia in questa regione montagnosa. E' un piatto dalle chiare origini contadine, perché si usano un po' tutti gli avanzi di carne: ce ne sono di diversi tipi dentro, cotta in tempi molto lenti (un paio d'ore) insieme a del mais pestato e ad altri legumi. Infine si aggiunge un soffritto fatto con il grasso delle carne, una cosa che somiglia molto alla “cotica”... Buonissimo, soprattutto il primo che ho mangiato, che mi hanno servito in una specie di zucca fatta di pane, con la mollica della parete interna che man mano si impregnava del saporitissimo sugo, e poi, una volta finito il locro, il gioco non era finito perché si cominciava a decomporre la zucca di pane che nel frattempo si era insaporita...
Altre specialità andine, la humita, una foglia di mais (che ovviamente non si mangia, ma nessuno si è premurato di dirmelo la prima volta...) che avvolge a mo' di pacchetto (ha pure una cordicella per chiudere) una pappetta di mais e altri ingredienti non meglio identificati. Divertente e saporito ma poco solido...
Poi ci sono i tamales, una variante degli humita ma dove il mais è usato per comporre una specie di pastella (poi sempre avvolta e cotta nella foglia della pianta stessa) con dentro un ripieno di carne (ovviamente) uovo e altre diavolerie.
Nella Valle Calchaquiés la specialità è invece il cabrito al horno, e il povero capretto, che qui fa per una volta le veci dell'abusata vacca, è davvero tenerissimo e molto molto saporito.
Poi, mi duole ammetterlo, nella pioggia di carne di questi due mesi, ho assaggiato (con qualche resistenza all'inizio, poi ho provato dai miei compagni di tavolo e la volta dopo ho ceduto anche io) anche la carne di lama, che nel Noroeste è piuttosto comune (il lama, al contrario della bellissima vigogna o dei guanachi, non è a rischio estinzione). Devo ammettere che è molto buona, non troppo diversa dal manzo ma più tenera.
Forse vi ho già anticipato della picada andina, un piatto di antipasto che comprende una quantità spropositata di tipi diversi di patate, servite con le bucce e tutto e davvero ottime.
Per finire (spero) la carrellata sulle carni (non vi sto a raccontare i tagli diversi di manzo che ho provato perché sono troppi e poi non ho ancora capito le differenze...), ci sono ancora tre cose. La milanesa è, sorprendentemente, una... cotoletta. Sì proprio lei. Ma sorprendentemente la napolitana è invece una milanesa avvolta in uovo fritto e prosciutto. Non mi risulta che a Napoli facciano niente del genere (magari Francesca ci sa aiutare), ma qui ho capito che ogni volta che qualcosa ha questo tipo di accompagnamento (uovo fritto tutt'attorno e ne mezzo prosciutto) la chiamano Napolitana. Infine, il lomito, che è un classico panozzo con la carne, solo che ovviamente la carne è tantissima e c'è di tutto dentro, compreso il solito uovo fritto, patate fritte, e tanta altra roba (in realtà puoi scegliere tu cosa metterci).
Sul formaggio devo purtroppo dire che gli argentini non ci sanno proprio fare, e questo nonostante il latte di prima qualità (senz'altro migliore del nostro) che si ritrovano: fanno sempre gli stessi due o tre tipi di squallidi formaggi. Mi colpiva nel Noroeste la scritta ovunque queso y quesillo, poi ho scoperto che il quesillo è in realtà un dolce, fatto, neanche a dirlo, con una forma piccola di formaggio molto bassa che viene condito con diversi tipi di marmellate. Buono, per gli amanti del genere.
Purtroppo non posso darvi molte indicazioni interessanti sui dolci, che generalmente fuori dall'Italia non riesco a mangiare perché sono troppo dolci. Però ho scoperto che Buenos Aires è la seconda città al mondo (dopo Londra) per offerta di dolci per abitante. E stasera mi hanno fatto provare una crostata alla patata (!!) che non era niente male.
Ho provato invece ottimi vini tra cui il Torrontés, un bianco che fanno solo nella Quebrada de las conchas (ve ne parlerò), peccato che qui abbiano strane abitudini in quanto a bere: non solo usano dappertutto la soda (come distruggere qualunque bevanda, soprattutto se vino), non solo fanno un uso spropositato di sprite e in generale gassose, ma la moda nazionale è il Fernet Branca, e fin qui niente di troppo strano, mischiato alla Coca Cola. Mah!
Infine, per strada, ci sono ad ogni angolo venditori di popcorn (per di più dolci) e pochoclo, una roba completamente caramellata il cui odore dolciastro invade spesso le vie delle città argentine.

lunedì 26 maggio 2008

La meglio gioventù

Sono proprio contento della vittoria di Garrone & Sorrentino, uniti dallo splendido Toni Servillo e dal coraggio di raccontare l'Italia di oggi, noi che siamo così bravi a guardarci indietro.
Sono anche molto contento di aver nominato proprio loro due, quando al Bafici mi hanno chiesto più volte dello stato di salute del cinema italiano, che tutti davano per sepolto, morto o moribondo.
Ho provato a dire che da pochissimi anni ci si è svegliati da un lungo sonno, pur tra mille difficoltà. Ma gli autori e le idee ci sono, e la vittoria di Cannes è un bel riconoscimento internazionale che non può che far bene, al nostro cinema (sempre che non ci si riempia la bocca di paroloni fuori luogo...)
E comunque, sarà un caso che il nostro cinema prova a risorgere sempre nei momenti più cupi del nostro benedetto paese?

domenica 25 maggio 2008

Mate, bevanda e mania nazionale

Allora eccolo, il mate.
Contrariamente a quanto pesano alcuni, trattasi non della variante argentina della tipica esclamazione barese (“matheux!!!”), ma di uno dei capisaldi della identità argentina.
In effetti è la cosa che colpisce di più, arrivando in Argentina, più dei pur onnipresenti asados e parrilladas. Sarà che uno non può stare sempre con una bistecca davanti, mentre invece può benissimo passare la giornata bevendo mate.
Ma andiamo con ordine. Il mate più che una bevanda, è un rito e un'attività sociale. E' difficile che lo si beva da soli, in effetti. Ed è diffuso a tutti i livelli della società, in tutte le classi sociali.
Funziona così: tutto parte dallo yerba mate, una pianta partente dell'agrifoglio che viene prodotta soprattutto nella provincia di Misiones, e infatti è lì, nelle missioni gesuite, che gli europei scoprono questa usanza indigena. La foglia viene essiccata e sminuzzata un po' come si fa con il tè. Dopodiché c'è il complesso rituale della preparazione. In passato le famiglie abbienti sembra che avessero uno schiavo dedicato esclusivamente alla preparazione della bevanda...
Dunque c'è una persona, il cebador, che è quello che si occupa di condurre il gioco. Riempie la coppa (il mate, appunto, che può essere di zucca, di legno, di metallo, d'argento, insomma...) quasi fino all'orlo con l'erba, poi ci versa sopra l'acqua calda (ma che non deve aver bollito!), e con una bombilla (una asticella con un piccolo filtro sulla parte inferiore) si aspira l'acqua che rapidamente si aromatizza. Ognuno finisce tutta l'acqua nel mate, poi il cebador la riempie di nuovo e la passa alla persona successiva, e così via...
Sembra facile, ma non lo è. Innanzi tutto perché per avere acqua calda al punto giusto devi avere con te un thermos, che è piuttosto ingombrante anche perché deve contenere acqua per tutti... E poi soprattutto perché il cebador deve avere l'abilità di far bagnare solo una parte di foglie alla volta, che non è facile facile in un recipiente che riempi d'acqua calda... Questo perché così le foglie di mate durano di più.
La cosa importante del mate è che si beve in compagnia, una specie di grolla valdostana senza alcool. Tutti, ma veramente tutti, lo bevono continuamente. In effetti gli argentini ne consumano 5 chili l'anno a persona (solo in Uruguay ne consumano di più), quattro volte il consumo del caffè. Mi dicono che anche in uffici molto seri ed eleganti, un mate davanti al monitor del computer non manca mai. In tutte le occasioni sociali, soprattutto all'aperto, c'è sempre qualcuno che porta tutto l'armamentario. Ma ad un certo punto l'acqua calda finisce... Niente paura, si può andare praticamente ovunque per farsela scaldare. Addirittura, in molti locali pubblici o nei terminal, esistono macchine apposite che distribuiscono acqua calda (a volte gratis, a volte pagando un peso).
Insomma, non rischierete mai di rimanere senza mate.
Se un argentino vi offre il mate, è un segno di benvenuto che è quasi impossibile da rifiutare. Io non l'ho mai fatto e devo dire che mi è sempre piaciuto, a volte è un po' amaro (alcuni mettono zucchero e altri no, e ci sono varietà di mate più forti) ma ha un buon sapore. Gli scaffali dei supermercati che vendono mate sono incredibili, ne hanno decine di marche e qualità differenti...
Tra l'altro, sembra che recentemente abbiano scoperto che lo yerba mate contiene quasi tutte le vitamine necessarie all'uomo, anche in termini di quantità.
Come a dire, un mate al giorno, leva il medico di torno...

Lo sciopero quotidiano e la Difunta Correa

Come vi ho detto, in Argentina scendere in piazza è quasi un obbligo sociale. Cacerolazos e piqueteros sono sempre all'ordine del giorno. Forse è perché la democrazia è in fondo così giovane, forse è solo un modo di fare casino, certe volte è addirittura un veicolo di controllo sociale (come mi hanno raccontato, non ci sono solo manifestazioni contro ma anche a favore, ovvero a favore del governo, peccato che in quest'ultimo caso siano spesso organizzate e pagate dal governo stesso, che sfrutta la fame dei descamisados per mandarli in piazza in cambio di pagamenti in natura, spesso con cibo).
Impossibile non imbattersi in qualche blocco della circolazione o rumorosa protesta, e infatti a me è capito parecchie volte.
Nel viaggio da Puerto Iguazu a Buenos Aires, che doveva contenere una tappa a Rosario, sono capitato proprio nell'occhio del ciclone. La lotta tra il “campo”, i contadini, e il governo, non sembra conoscere fine e le strade sono di nuovo bloccate dagli agricoltori. Io dovevo attraversare il Rio Paranà, che non è un esattamente fiume ma quasi un mare (nel nord è semplicemente larghissimo, tanto che stenti a vedere l'altro riva, sul delta, a Buenos Aires, la bocca è larga più di duecento chilometri, come dire da Roma a Napoli...), e per questo ci sono pochissimi ponti che lo sfidano. E nessun bersaglio è migliore di un ponte, se vuoi creare disagio. Per fortuna nel nostro caso si è trattato solo di aspettare poco più di un'ora, poi ci hanno fatto passare.
Certo era facile e comodo, aspettarla nell'autobus migliore che mi è capitato finora, serviti e riveriti, con addirittura un ottima cena calda (con l'immancabile carne e addirittura una miniporzione di parmigiano grattugiato da mettere sul riso che la accompagnava...).
Devo aprire una parentesi sugli autobus. Tutti mettono film in continuazione, per fare passare più velocemente le lunghe ore di viaggio. Ciò che è straordinaria è la selezione di film che viene fatta: se nella maggior parte sono film americani recenti o recentissimi (certe volte ancora in sala!), spesso si tratta di film d'autore o comunque non commerciali, e mi è capitato un viaggio in cui hanno inanellato di seguito “Io e Annie”, “Juno”, “I'm not here” e “Y tu mamà también”. Come a dire, programmazione che nemmeno i nostri cinema d'essai osano. In effetti mi hanno detto che in Argentina il cinema d'autore va molto forte, che Woody Allen e i fratelli Coen sono tra gli americani più in voga (almeno a Buenos Aires e nelle grandi città), ma non pensavo che addirittura nei pullman, dove c'è gente di tutti tipi, non certo solo cinefili, mettessero questo tipo di film.
Insomma arrivo a Rosario, dove avevo un sacco di posti consigliati perché due persone che ho conosciuto sono di qui, e invece la città è completamente bloccata. Mi dicono tutti la temutissima frase “hay paro”, che all'inizio sembra solo uno sciopero a tappeto dei taxi (che oltre a non lavorare bloccano tutto l'accesso al centro, provocandomi non pochi problemi logistici), poi invece mi rendo conto che tutta la città è ferma, come a lutto, c'è gente ma tutto è chiuso, dai negozi ai ristoranti ai musei, perfino i cinema multisala (che non chiudono mai!).
Alla fine mi spiegano che c'è stato nella notte un brutto episodio che ha visto la morte di un tassista (sembra che il ragazzo che l'ha ucciso abbia dichiarato che l'ha fatto perché non aveva i 6 pesos per pagare la corsa, pur se la sua intenzione non era quella di uccidere), e che la protesta-lutto si è estesa dai tassisti a tutta la città. Dopo aver appurato che la cosa sarebbe andata avanti ancora un paio di giorni, e soprattutto che due giorni dopo ci sarebbe stata una mega manifestazione nazionale dei contadini, ho pensato bene di scappare e di tornarmene nella (mia) Buenos Aires.
Peccato perché Rosario sembrava interessante, molto elegante, molto europea, molto viva (nonostante il lutto cittadino!), con un bellissimo lungofiume di 15 chilometri, isole al centro del fiume e spiagge (spiagge?! per fare il bagno in quel fiume? mah...), un clima rilassato e festaiolo.
Ma sarà per un'altra volta.
Ah, dimenticavo! Lo stesso giorno a Rosario c'erano altre due manifestazioni, una notturna degli studenti davanti al rettorato, e un'altra che è durata tutto il giorno degli indios (“pueblos originarios en lucha”, diceva un cartello) con tutta la famiglia e soprattutto centinaia di bambini festanti al seguito, davanti al comune. E invece nella placida Cordoba una manifestazione indetta contro l'aumento dei prezzi dei biglietti dell'autobus è sfociata in guerriglia urbana...
Comunque, vi avevo promesso la storia della concorrente del Gauchito Gil. la Difunta Correa. I suoi santuari sono pari a quelli del gauchito, anche se meno appariscenti perché non ci sono le bandiere rosse che sventolano. In alcuni casi sono addirittura uno accanto all'altro, così ti puoi fermare a rendere omaggio a tutti e due in una volta sola.
Ma qual è la sua storia? Deolinda Correa, durante la guerra civile di metà '800, seguì a piedi il battaglione del marito malato, portandosi dietro il figlio piccolo in braccio. La donna morì di stenti, ma quando alcuni pastori la trovarono, videro che il bimbo era ancora vivo e che stava succhiando latte dal seno materno. La sopravvivenza del figlio è solo il primo di tanti miracoli che le sono stati attribuiti, e il luogo della sua morte è diventato presto un affollatissimo santuario, con un intero paese che gli è sorto intorno e 200.000 fedeli che arrivano qui soprattutto il primo maggio e a Natale.
I camionisti sono evidentemente tra i più fedeli: le cappelle della Difunta si riconoscono dalla presenza di numerose bottiglie d'acqua, messe lì per “dissetare” la santa morta di sete.
Tutto sarebbe quasi “normale” per noi abituati a eccessi di questo genere con svariate tipologie di santi, se non fosse che la Difunta Correa non è riconosciuta santa dalla Chiesa, e quindi ancora una volta si tratta di una tradizione fortissima ma tutta popolare, nata per così dire “dal basso”.
Esiste un sito del santuario (che contiene una storia più dettagliata, se vi interessa) e anche uno di un gruppo musicale cileno (la devozione è diffusa anche lì e in Uruguay) che si chiama Difuntos Correa, che vuole diffondere la leggenda, non è nemmeno così male e, udite udite, quest'estate è in tour in Europa.
Imperdibili!

sabato 24 maggio 2008

Su richiesta del gentile pubblico...

Ebbene sì, è arrivato il momento che molti (la maggior parte, va'... tutti? no, tutti no, dai...) di voi aspettavano.
Tornato a Buenos Aires, tra le mille cose da fare di questa settimana incastrerò anche un po' di tempo per... i regali.
E quindi sono ufficialmente aperte le richieste.
Sbizzarritevi pure, ma saranno soddisfatte solo richieste pubbliche tramite il blog. Coraggio!

p.s.: no, le foglie di coca non ve le porto, vi ho detto che erano legalizzate solo nel Noroeste andino, non certo a Buenos Aires e men che mai in aeroporto...
p.p.s. nella foto, lo yerba mate, anche se non ve l'ho ancora raccontato...

venerdì 23 maggio 2008

Volver

Se è vero che partire è un po' morire, allora tornare deve essere un po' come rinascere. O forse tornare bambini.
E un po' è così, tornando in una città che non è più solo curiosità e immaginazione, ma è realtà, strade conosciute, luoghi dove tornare, persone da salutare, appuntamenti, storie e volti, oltre che immaginario.
La lunga parentesi fuori da Buenos Aires alla fine si è conclusa, e sono tornato al punto di partenza. D'altra parte, i migliori viaggi sono sempre circolari. L'importante è tornare cambiati, no?
Stavolta ho deciso di prendere in affitto un appartamento. Ora che avevo in mente la mia personale mappa delle città, ho scelto il quartiere più verde e (spero) meno inquinato, anche se un po' lontano dalle zone dove si esce la sera.
Sarà strano, avere una casa a Buenos Aires.
E un po' è come se questa parentesi di più di un mese lontano dalla capitale non sia stata che una vacanza, ma ora, appunto, si torna a casa.
Forse devo rivedere il mio personale concetto di casa. E' dove tieni tutte le tue cose? Ma quelle sono solo oggetti. E poi, una volta che hai un ipod con tutta la tua musica dentro, è già un portarsi dietro molta parte della tua casa. E' dove vivono tutti i tuoi amici? Certo, con due problemi però: che la maggior parte dei miei amici non vive nella mia città, e che gli amici non sono alberi (tranne uno! conosco un Ent, che però forse è un Ent pentito...), e si spostano, e possono andare via come anche venire a trovarti... Casa è dove sei cresciuto? Non nel mio caso. Forse casa allora è dove ti senti a casa. E' un concetto molto relativo e mobile, così come sono diventate mobili le nostre identità, ciò che ci definisce. Non siamo più un lavoro, una religione, un partito, un paese, e allora forse non siamo nemmeno più un luogo e una casa.
Con questo non voglio dire che sento Buenos Aires come casa. Non ancora, almeno. Ma certo c'è qualcosa, un sentirsi a proprio agio forse, che è significativo (solo Berlino ha avuto un effetto simile, addirittura più amplificato, su di me: sarà un caso che sono gemellate?). Le due settimane che ho passato qui ho avuto una resistenza fortissima a “visitare” i posti, a prendere la guida e decidere “oggi vedo questo e quello”. Mi accontentavo, e già era tantissimo, di passeggiare, di camminare la città, di conoscerla attraverso le sue strade, i suoi caffè, i suoi parchi, i suoi abitanti. Non volevo “vedere” le cose, un po' perché ho sempre questa resistenza quando un posto mi piace, voglio sempre lasciare qualcosa di non visto, per avere una scusa per tornarci. Ma un po' perché, non so spiegare, è come quando sei nella tua città, non passi la settimana a pianificare cosa vedere. La vivi e basta.
Sarà così anche questa ultima settimana, già lo so. A parte un paio di musei che ci tengo a vedere, di cui uno anche per lavoro (quello sull'immigrazione). Con la differenza che avrò anche il mio piccolo angolino di casa dove tornare, la sera.
E soprattutto, e questo cambia moltissime cose, un conto è arrivare in una città che non conosci, un altro arrivare in un posto di cui già conosci i profili, dove ti sai orientare, dove conosci già persone, dove hai appuntamenti, dove hai cose da fare come se fosse una settimana qualsiasi nella tua città, appunto.
Come se fosse la tua vita normale.

Lovecraft e il frullatore

E dunque, la Garganta. Sarei stato ore, lì davanti, incantato, incatenato, ammaliato forse. Ma dopo un'oretta ci hanno cacciato tutti, il parco chiudeva. E non solo perché i visitatori dovevano uscire. La foresta, la giungla, con il buio, ti si chiude man mano attorno. E' ancora tempo di tramonto, un tramonto rossissimo, saranno i tropici, non so. Gli animali si fanno sentire sempre di più, concerti sinfonici di grilli, rospi, rane, uccelli di svariati tipi, scoiattoli che uscivano allo scoperto anche nel centro visitatori in cerca di cibo. Niente giaguari, purtroppo o per fortuna.
Devo aspettare due ore, ho preso il primo turno di visita notturna, mi hanno detto che è il migliore perché la luna è più bassa. Non ho voglia di tornare a Puerto Iguazu, anche se farei in tempo e forse farei bene a prendermi qualcosa di più pesante della mia camicetta da mettere addosso, visto che la sera la temperatura si abbassa e l'umidità aumenta. Ma ho voglia di godermi il parco che finalmente si fa silenzioso, rimangono solo poche persone ad aspettare, come me. Un tipo mi offre una birra. Arriva anche una famiglia di italiani, ma gli sto alla larga. Alla fine, quando si è fatto completamente buio, fatta eccezione per la luce della luna, arrivano tutti gli altri e ci dirigiamo verso il trenino. Un guardiaparco ci spiega cosa succederà, di stare attenti quando camminiamo sulla passerella perché può essere umida (e voi fate più alti i passamano, vorrei dire io, così non c'è rischio che la gente cada...). Ci dice che, se siamo fortunati, in alcune condizioni possiamo vedere l'arcobaleno con la luce della luna.
Entriamo tutti nel trenino, siamo quasi un centinaio di persone. Il viaggio di una ventina di minuti, con il treno che spegne le luci e ci lascia al buio, ed è tutt'altra cosa rispetto a quello di andata. La natura prende il sopravvento, la luce della luna getta appena un po' di luce in un mondo oscuro ma vivo, che rumoreggia al nostro passaggio. La gente, tutti noi, stain silenzio, rapita, forse anche un po' impaurita.
Arriviamo, e comincia il tragitto in passerella. Il fiume ha un aspetto più minaccioso, ora, ogni macchia nera è sospetta, ogni movimento nel buio è pieno di sinistre minacce. Sarà che scalo un po' di posizioni per stare il più possibile davanti, ma mi sembra che tutti siamo talmente in soggezione davanti alla forza di una natura così tanto più grande di noi, e così misteriosa, al buio, che quasi nessuno parla, e chi lo fa lo fa sussurrando. Non è facile, tenere zitti un centinaio di turisti. Forse è il potere del buio. A volte buio vero, quando si passa sotto alberi che tenevano lontani anche i raggi lunari. Ma credo che quel poco (poco?) di paura che ognuno di noi ha è dovuto a due distinti tipi di suoni.
Il rumore della cascata, di notte molto più forte, e stavolta cominci quasi a credere che quella che stai per vedere è davvero la Garganta del Diablo. Voglio dire, il rumore è quello che avrebbe fatto lui, il Diavolo.
E poi, il rumore, i rumori, di tutto ciò che ci sta attorno ma non possiamo vedere. Perfino la passerella di ferro fa degli strani sospiri, al passaggio del tuo piede, quasi gemiti, quasi grida d'aiuto. Non un cigolio, che avrei capito, ma proprio una specie di sospiro, come se ci fosse aria, che so un cuscinetto, qualcosa che però non c'è.
Attorno c'è una natura enorme e terribile, oscura e potenzialmente cattiva. I due chilometri di passerella sono la cosa più simile ad una passeggiata in un racconto di Lovecraft che mi sia mai capitato di vivere. C'era qualcosa, là fuori, ad un passo dal ferro della passerella. Ci sono creature, nascoste sotto l'acqua. Ci sono pozze stagnanti dove esseri immondi aspettano solo che qualcuno cada in fallo.
Sarà per questo che tutti camminiamo al centro della passerella, tenendosi ben lontani da quei bordi che, chissà perché, sembrano tenere lontano il Male che alberga tutt'attorno, sotto, nell'acqua, e tra gli alberi?
Non lo so.
Certo poi, quando si comincia a vedere la Garganta illuminata dalla luna, quando il rumore aumenta fino quasi a diventare insostenibile, quando arrivi alla fine e tutto è acqua e vertigine e vento e vortici e spruzzi e riflessi, non riesci a non pensare che qui bellezza e terrore si toccano, forse si amano, è tutto talmente bello che fa paura, è la paura di una Natura matrigna, infinitamente bella e infinitamente cattiva, è la paura di guardare quello che non puoi vedere, non puoi guardare il tuo dio negli occhi perché ti acceca, ti impietrisce, ti distrugge.
Poi, mentre la gente tenta stupidamente di fare foto, e i piccoli flash sono come punture di spillo di tanti lillipuziani che cercando di catturare il Gigante, e tu sei lì imbambolato, terrorizzato anche, provi a seguire con gli occhi gli spruzzi d'acqua che cadono, e sembrano andare molto più lenti, come se tutto fosse al rallentatore, come se, per non accecarci e assordarci tutti, la cascata lavorasse a mezzo servizio, piano piano, piccoli poveri stupidi umani.
Fisso quell'acqua che è bianchissima, illuminata dalla luna. Non sembra nemmeno acqua. Sembra spuma, manna caduta da qualche cielo, forse latte appena uscito dai seni della Terra (pardon, dalla Pachamama), sì, sembra proprio latte...
Poi guardo giù, là dove non riesci a vedere, perché nuvole di vapore escono, si alzano, ti vengono incontro, e non sembra nemmeno vapore, sembra...
Allora, è un attimo, e capisco tutto: quello sotto di me è Il Più Grande Frullatore Del Mondo! Ma sì: latte, e dopo un attimo, voilà: panna montata...
Tutto è chiaro ora, e la Garganta non fa più paura, forse è solo il nome della marca... E quasi mi dispiace che non ci sia più vento che mi porti su la panna, mi piacerebbe proprio aprire la bocca per assaggiarla al volo...

p.s. la foto notturna non è mia ma un poco (solo un poco) rende l'idea...
p.p.s. mi dispiace per voi, ma avrete ancora un altro post sulle cascate...

Là dove il mondo finisce

Si sa, avevano ragioni gli antichi. Noi lì a baloccarci con l'idea balzana della terra rotonda: ma quando mai, la terra è ovviamente piatta e, un po' oltre le colonne d'Ercole finisce qui, a Iguazu.
Per arrivare alle cascate prendo un colectivo da Puerto Iguazu, quelli che salgono hanno tutti la divisa, evidentemente lavorano al parco... Arriviamo all'ingresso, l'autobus si ferma e entra un tipo che dice di far scendere tutti quelli che devono fare il biglietto, che la biglietteria interna è già chiusa. Mi guardo attorno e... scendo. Solo io. L'autobus aspetta. Mi sento come dentro quel vecchio film di Nuti, quando sale su un autobus che si deve inerpicare su una strada in salita, e l'autista continua a dire “non glie la fa, non glie la fa...” fino a che l'autobus in effetti non ce la fa più e l'autista dice “scendano tutti tranne vecchi, donne e bambini”. Poi riparte baldanzoso e a terra, a farsela a piedi con le valigie, rimane solo il povero Francesco Nuti...
Arrivo in effetti al parco solo nel tardo pomeriggio, giusto il tempo di una prima perlustrazione veloce, ma l'impressione iniziale non è ottima, tra le strutture del centro visitatori, gli indios che vendono paccottiglia per terra, e il trenino per spostarsi che fa tanto Disneyland. Chiedo cosa posso vedere in due ore, prima delle chiusura, e mi dicono: sparati subito il meglio, vai alla Garganta del Diablo. La vedrai anche stanotte per il Paseo alla luna llena, ma di giorno è un'altra cosa...
Vado, è l'ultima fermata del trenino, che in effetti dopo un po' si inoltra un po' di più nell'immenso parco. Mi aspetto di vedere puma, giaguari, macuchi e tucani (sì, tucani, stavolta davvero), ma naturalmente non è né l'ora né il posto giusto.
La Lonely Planet anche stavolta è un po' terroristica, spiega cosa fare nel caso si affrontino felini pericolosi, dice che alcuni turisti sono morti annegati e il figlio di un guardaparco è stato sbranato da un giaguaro.
In realtà l'ultimo trenino per la Garganta, con una cinquantina di turisti festanti, fa talmente paura ad ogni eventuale animale che tutti pensano di stare saggiamente alla larga.Alla fine del trenino comincia un percorso su passerelle che attraversano tutto il fiume per arrivare sopra la cascata, nel suo punto più spettacolare. Sì perché ad Iguazu non si può parlare di “cascata”, le cascate sono un'infinità, sono più di due chilometri di fronte, una quantità d'acqua inimmaginabile...
Chissà cosa deve aver pensato Alvar Nunez quando, spintosi nella fitta giungla, è giunto a scoprire, nel 1541, le cascate. Avrà pensato alla fine del mondo, sicuramente.
La senti da lontano, la Garganta. Senti il suo rumore che si fa sempre più forte Ma certo, è il Diavolo che fa i gargarismi, che si schiarisce la gola.
Avvicinarsi all'ora del tramonto, quando gli animali si risvegliano, fa un po' impressione. Soprattutto passare su queste passerelle molto improvvisate, basse meno di un metro, che basterebbe scivolare e poi è un attimo cadere nel fiume, essere trascinati dalla corrente, e sono solo poche decine di metri dal salto.
Il rumore si fa sempre più forte, la Garganta ti attira, ti richiama, è un rumore ipnotico, incantatore. Affretti i passi quanto la sicurezza della scarsissima passerella te lo permette, e cominci a vedere sbuffi di vapore, lontano, e, più ti avvicini, più capisci che è quello, il punto in cui la terra finisce. Così, improvvisamente, come è giusto che sia, nel punto in cui finisce il mondo, e comincia il vuoto. L'acqua non lo sa, si avvicina inconsapevole, quasi placida nella sua incoscienza, poi capisce tutto in un attimo, prova a rallentare il suo corso, a fermarsi, ma ormai è troppo tardi e cade giù, veloce, sempre più veloce, si infrange sulle rocce basaltiche e poi si perde nel vuoto. Non senza alzare il suo grido di dolore e le sue lacrime, nella forma di acqua nebulizzata che il vento poi riporta su, come tante piccole anime di h2o che viaggiano verso l'alto, verso il cielo, e investono il turista, ignaro del dramma che si consuma sotto i suoi occhi.
Turbini di acqua portata dal vento che ti investono, ti spingono, sferzano il tuo viso e ti entrano nella bocca, aperta per l'occasione in una espressione di meraviglia e terrore.
Sì, non si può non provare terrore per questo spettacolo, acqua che da tre fronti diversi arriva a si suicida gridando, urlando di dolore. E' un'attrazione quasi magica, quella delle Garganta, che ti spinge ad avvicinarti sempre più, incurante dell'acqua che ti arriva addosso, verso il bordo della passerella (sempre quella lì, bassissima...), per guardare giù, lì dove l'acqua deve arrendersi alla gravità, guardare giù e stordirsi per l'altezza, il rumore, la bellezza immensa e terrificante.
Uno scherzo, certo. Un dio burlone che ad un certo punto si è messo a fare questa opera d'arte nel bel mezzo di una giungla, dove nessuno l'avrebbe mai vista. Invece, no, l'hanno scoperta, desiderata e violata. Ci hanno costruito alberghi e passerelle. Ci sono andati sotto e sopra con le barche. Ma l'acqua si è presa le sue vendette. Ha distrutto la vecchia passerella per la Garganta, durante una inondazione. Ancora è lì, come monito di quanto l'acqua sa fare, quando vuole e si arrabbia. E poi, quando turisti avventurosi si avvicinavano al bordo della cascata con delle barche a remi, un servizio delle gente del posto, con il proprietario che remava con tutte le sue forze per far rimanere la barca ferma vicino al bordo, stanca di questo gioco che voleva forse sminuire la sua potenza, se li è presi, una volta, una barca con 7 turisti tedeschi e il proprietario. Se li è presi e li ha inghiottiti. State attenti a voi, che mi sfidate, senza sapere cosa posso e so fare, se solo ne ho voglia.
Guardi tutto ciò, pensi a quanta energia, tutta l'energia del mondo è racchiusa qui, pensi a quanto sia forte l'acqua, che trova sempre e comunque una sua strada, qualunque siano gli ostacoli davanti a sé, guardi quella quantità spropositata di litri d'acqua al secondo che ti scorrono davanti, e scopri da te, senza che nessuno te l'avesse detto prima, qual è il colmo del contemplatore delle cascate di Iguazu: essere lì, letteralmente circondato da tutti i lati da acqua, e nello stesso tempo accorgerti di avere sete, e di avere già finito la tua misera bottiglietta da mezzo litro (mezzo litro! puah!).

mercoledì 21 maggio 2008

Argentina profonda

Attraversare l'Argentina per quasi tutta la sua larghezza (1570 chilometri), da Salta a Puerto Iguazu, per di più dal posto panoramico dell'autobus, è un po' come dire avere un'idea dell'Argentina profonda, quella degli spazi sterminati, dei campi infiniti, della gente che si muove a cavallo, gauchos improvvisati ma realistici, di paesi e città che, per quanto grandi, si perdono in mezzo a tutto queste distanze disabitate dagli uomini, e regno solo di vegetali e animali.
Il paesaggio cambia innumerevoli volte, in questo paese tanto grande e tanto vario, dalla provincia di Salta a quella di Missiones. E' un viaggio nello spazio ma anche un viaggio a ritroso nel tempo, laddove la terra è ancora il bene primario. Si costeggiano parchi naturali, alle volte decine e decine di uccelli predatori sono lì in alto nel cielo, che planano senza muovere le ali, con quella grazia e eleganza che è solo loro, che sembra quasi naturale, volare, fatto così, sembra quasi che non ci voglia poi molto.
Le strade non sempre sono in buone condizioni, a volte l'autobus è costretto a rallentare moltissimo per evitare danni dovuti dalle buche o dall'asfalto dissestato. Ma in ogni caso, appena si fa buio, occupa stabilmente il centro della strada, tanto di traffico c'è n'è sempre poco e poi così si ha più spazio per evitare buche e eventuali animali.
Tra colleghi, poi, ci si saluta sempre, lampeggiando.
I terminal delle città sono sempre vivi, anche di notte, c'è sempre gente che aspetta qualche omnibus e qualche ufficio aperto. A volte i bar/ristoranti sono addirittura affollatissimi, in piena notte.
Il viaggio scorre via liscio, anche perché l'autobus è semivuoto (dovevo prendere il cama ma era pieno, molto meglio questo semi-cama vuoto...). Arrivati la mattina a Posadas, vedo scorrere tutta la regione di Misiones per arrivare a Puerto Iguazu.
Ero molto indeciso, in realtà, se usare gli ultimi giorni prima della settimana bonairense per andare a sud, nella provincia di San Juan, in quella che è chiamata la “valle della luna”, oppure a Iguazu. Mi hanno convinto tre cose: una che la valle della luna è sulla ruta 40, e quindi spero di passarci presto in un altro viaggio. La seconda è una promessa che avevo fatto di andare a vedere le cascate. La terza è che in effetti il periodo era quello giusto, sia perché non fa il caldo asfissiante che fa d'estate, sia perché avevo letto che ci sono visite guidate notturne nelle notti di luna piena, come queste.
E allora eccola, Misiones, regione di boschi e piantagione di yerba mate, la mania argentina di cui vi parlerò presto, di parchi naturali (ne ha tre) e di fiumi, che lambiscono e segnano i confini di questa terra che si allunga tra Paraguay, Brasile e Uruguay.
I nomi dei paesi qui hanno tutte assonanze del tutto dissociate: Baden Baden, Eldorado, Jesus, Puerto Rico, Montecarlo... E la vegetazione mi ricorda che il tropico del capricorno è a due passi...
Arrivo a Puerto Iguazu dopo quasi 27 ore di autobus, un po' provato e infatti, dopo aver dribblato abilmente i tipi della HI, mi lascio convincere da un tipo a vedere un residencial vicino al Terminal, e alla fine lo prendo pure: è veramente molto alla buona, ma la posizione è ottima e poi costa solo 50 pesos (10 euro) colazione compresa...
Peccato perché in realtà l'ostello qui era fantastico, con addirittura una splendida piscina e aree lounge, ma naturalmente l'ho scoperto dopo...
Eccomi, allora, nel paese delle mitiche cascate, il posto più visitato dell'argentina insieme a Buenos Aires e Ushaia. L'unico, in effetti, dopo la capitale, dove mi è capitato di sentire parlare italiano.
Presto il racconto delle cascate.
Approfitto però del lungo viaggio per raccontarvi di una delle due cose più frequenti che si incontrano lungo le strade argentine: i santuari carichi di bandiere rosse del “gauchito” Antonio Gil.
La storia di questo gaucho, che risale al secolo scorso, è un tipico esempio di come qui convivano una religiosità forte e culti pagani, non solo negli indios ma in tutta la popolazione.
Antonio Gil, che viveva da gaucho, ha una storia con una vedova e si attira l'odio del fratello di lei e soprattutto del capo della polizia, anch'egli in relazione con la vedova. Per sfuggire all'ira dei due, Gil si arruola e combatte la guerra contro il Paraguay (siamo a metà dell'800). Quando ritorna, lo chiamano per la guerra civile argentina, ma Gil stavolta diserta insieme ad altri due commilitoni. I tre vagano per le campagne e i boschi, rubano il bestiame ai ricchi proprietari terrieri e lo condividono con i contadini poveri, che in cambio offrono loro protezione e alloggio. Alla fine però li trovano in un bosco e Gil viene condannato a morte. Prima di essere ucciso dice al poliziotto che lo deve giustiziare che se lo seppellirà (cosa non possibile per i condannati a morte) e lo pregherà sarà possibile guarire il figlio da morte certa. Il boia, che ancora non sa che il figlio si è effettivamente malato, non gli da ascolto. Poi però scopre che il figlio è in effetti gravemente malato, e allora torna a seppellire Gil e prega di guarire il figlio. Il figlio guarisce prontamente, il poliziotto costruisce un santuario a Gil e diffonde la notizia del miracolo: si diffonde così la leggenda del gaucho che fa miracoli e che ha salvato la vita al figlio del suo boia.
Da allora, ogni pochi chilometri sulle strade argentine ci sono migliaia di piccoli e grandi santuari, e ci si rivolge al “santo” (che ovviamente non è tale) per piccoli o grandi miracoli. In particolare, da viaggiatori, quando si passa davanti ad un santuario bisogna o suonare il clacson, o farsi il segno della croce, oppure salutare in altro modo il gauchito, pena ritardi, contrattempi o addirittura l'impossibilità di arrivare a destinazione...
L'8 gennaio, l'anniversario della morte, c'è perfino una immensa processione che richiama centinaia di migliaia di persone. C'è perfino un sito con le canzoni di Gil, e se volete potete chiedere un miracolo online....... (www.gauchogil.com).
Poi vi racconterò anche dell'altro santuario che fa concorrenza a quello del gauchito Gil, la Difunta Correa.

martedì 20 maggio 2008

Iruya, o viaggio dentro la montagna

Andare ad Iruya è stata la degna continuazione dell'avventura sulla Puna.
Ad attendermi, nel terminal di Humahuaca, ci sono due autobus che nella migliore delle ipotesi sono degli anni '60, e una marea di indios che hanno con sé l'impossibile, pacchi enormi, sacchi di plastica giganteschi, sembra un esodo vero e proprio (il perché l'avrei capito solo il giorno dopo).
Si carica tutto sul tetto dell'autobus, sembra davvero di stare a Cuba. Non si capisce poi come facciano a riconoscere i pacchi, alla fine, visto che sono quasi tutti avvolti dalla stessa plastica azzurra. Cominciamo la traversata verso Iruna. 54 chilometri, tre ore di percorrenza prevista. Ne capisco il motivo poco a poco. All'inizio la strada è tutto sommato decente, un paio di guadi ma niente di trascendentale. Penso che quasi quasi avrei potuto farcela, con la macchina, ma quelli dell'agenzia mi avevano decisamente scoraggiato.
Si sale tra le montagne, in mezzo alle montagne, dentro le montagne. Facciamo una fermata in una paese che è laddove non avrebbe ragione d'essere. Eppure c'è, e c'è gente. Si sale, si sale, attorno a noi ancora vigogne selvatiche e asini, tanti asini. Arriviamo al passo che non ci abbiamo messo neanche troppo: sono i soliti 4000 metri, sembra quasi che se non ci arrivo almeno una volta al giorno non sono contento, ormai. Sul passo si cambia di provincia: da Jujuy si torna a Salta. E, come spesso accade, dopo il passo cambia il paesaggio, ma cambia anche, e decisamente, la strada.
Strada? Non è una strada, questa, ora me ne accorgo, non si può nemmeno definire mulattiera, è un sentiero scavato sul dorso di montagne ripidissime, è un accenno di cammino largo nemmeno quanto una macchina, e noi invece ci stiamo sopra con un pullman stracarico di persone e bagagli di ogni sorta.
I tornanti si fanno sempre più frequenti, orridi e strapiombi sono a un passo dalla ruota. Guardo avanti e non capisco dove possa andare a finire, questa cosa che chiamano strada. La valle si stringe sempre più, costoni di roccia che si fa via via più colorata ma anche più minacciosa si avvicinano sempre più pericolosamente ai finestrini.
Facciamo fermate in luoghi dove non c'è nessuna traccia di presenza umana, eppure c'è qualcuno che sale, o che scende. Ogni tanto, in lontananza, una casa di mattoni cotti al sole, che quasi si mimetizza: ma che fa lì, è un posto impossibile, impossibile arrivarci, ma anche se ci arrivi, poi?
Il paesaggio è sempre più mozzafiato (in senso letterale), scendiamo lentamente, i chilometri passano con una lentezza esasperante.
Poi, dietro una curva, eccolo: Iruya, il paesino arroccato nella valle, dove questa pseudostrada finisce. Saluto al volo le due ragazze di Buenos Aires che ripartono con il mio stesso autobus e mi dirigo nell'hostal consigliato per mangiare qualcosa (ero come al solito senza colazione, ma vista la strada, meglio così!). La montagna davanti a Iruya è impressionante. Mi riposo un po', poi faccio un giro. Non ci vuole molto, Iruya è davvero piccolissimo. Qui la povertà è palpabile, d'altra parte siamo vicinissime al confine con la Bolivia. Epperò c'è una bellissima scuola con il campo da pallavolo/basket, e c'è una mega parabola per il telefono e la tv. Mi inerpico sul belvedere che il sole sta già quasi nascondendosi dietro le montagne, c'è un gruppo di ragazzi/turisti che mi parla di una fiesta il giorno dopo. In effetti, scendendo, noto un insolito movimento di auto, carretti e asini per un paese così piccolo. Ci si prepara per la grande festa. Dopo una cena a base di tuberi locali (qua ci sono una quantità impressionante di tipi di patate diverse!), e mentre mi stupisco del collettivismo del paese (ci si riunisce in una grande sale per prendere le decisioni sulla festa, e quando manca qualcuno viene chiamato dall'altoparlante messo in cima al campanile...), vado a dormire presto. Domani mi aspetta un'altra scarpinata notevole, e questa volta non in piano.
Quando mi alzo, la mattina dopo, dopo un'altra fredda notte (nonostante la stufa accesa), faccio una lauta colazione e chiedo informazioni sul sentiero per San Isidro, che mi hanno consigliato. La tipa non sembra convinta, dice che ci vogliono più di due ore. A me avevano detto 4 tra andata e ritorno, a Salta. Io ho esattamente 4 ore prima della partenza del colectivo. Mi avvio, con l'idea di tornare indietro dopo 2 ore anche se non sono ancora arrivato.
I primi 3 chilometri sono quasi tutti in discesa, e questo fa aumentare le mie preoccupazioni per il ritorno. Però le montagne sono bellissime, con i loro tanti colori. Poi si cambia quebrada, devo seguire un altro fiume, e questa volta è una bella salita, e il fiumiciattolo è abbastanza in forze, in quanto ad acqua. Salgo mentre il sole comincia a sbucare dai monti e a bruciare. Incontro decine e decine di indios, a piedi, a cavallo o sull'asino, ma vanno tutti in direzione contraria alla mia, verso la festa che di giorno è più che altro mercato: tutti portano i loro prodotti per scambiarli o venderli.
Io continuo, “in direzione ostinata e contraria”, come direbbe un certo cantautore italiano. Con me c'è un cane che mi segue da Iruya. E' la seconda volta, dopo San Lorenzo. Forse sanno che se ti accompagnano e ti fanno da guida poi avranno qualcosa in cambio. Intanto lui viene, mi precede, mi aspetta, abbaia agli asini selvatici che qui hanno la fastidiosa abitudine di “caricarti”, come può caricare un asino certo, ma sempre meglio avere qualcuno che ti difende.
La salita è più lenta non solo perché ovviamente più faticosa, ma anche perché bisogna attraversare decine di volte il fiumiciattolo. E non sempre è facile, anche se ci sono delle rocce messe lì apposta. Però la corrente è forte e spesso le rocce sono bagnate, oppure un paio sono state portate via e bisogna trovare un altro punto più a valle o più a monte. Io vado avanti e saluto tutti quelli che incontro. Un paio di volte chiedo informazioni per sapere quanto manca. Sto pur sempre lottando anche contro il tempo. Ma ormai è una questione di principio e a San Isidro ci voglio arrivare.
Arrivo al mulino che è a solo un chilometro, e vado avanti più spedito, anche perché ho già superato il tempo limite che mi ero prefissato per il ritorno. E poi, dopo uno degli attraversamenti del fiume più difficile, eccolo lì, San Isidro, minuscolo paesino che non si sa come e perché si trova in questa valle dimenticata da Dio.
Non ho fatto l'ultima salita, gli ultimi 500 metri, perché ormai ero già ampiamente fuori tempo massimo. Ma l'importante era arrivare a vederlo, arrivare fin lì.
Non sapevo che il ritorno sarebbe stato molto più veloce, un po' perché c'era più discesa un po' perché sapevo già in che punti guadare il torrente, e poi avevo scoperto delle scorciatoie degli indios che facevano risparmiare qualche guado.
E così torno ad Iruya addirittura in anticipo, dopo solo 3 ore e mezza. Ho pure il tempo di vedere un po' il mercato, che è un mercato strano, non per turisti ma ad uso e consumo dei locali (e non ce ne devono essere molte, di occasioni di commercio, e infatti tutti compravendono e scambiano cose). C'è un po' di tutto e tutto mischiato. Quello che mi colpisce è anche perfino qui, sarà la televisione, i ragazzi cercano e si vestono allo stesso modo, un po' rapper americani diciamo.
Alla fine, galvanizzato da questa ennesima camminata sotto il sole (stavolta però un pochino mi sono spellato, in fronte, e nonostante che di acqua per bagnarmi ne avessi a iosa), provo a sfidare Montezuma che finora non mi ha miracolosamente sfiorato, e pranzo (e poi a Humahuaca merendo pure) da uno dei tanti invitanti ambulanti che stanno lì a cuocere carne all'aperto. Forse l'igiene non è la loro preoccupazione principale, ma il panozzo è buonissimo. E poi, sono sopravvissuto ai famigerati “fish kebab” pescati cotti e mangiati sulle inquinatissime acque del Bosforo, quindi...
Insomma, prendo le valigie dalla tipa che non si fidava delle mie forze, e forse ancora tronfio della vittoria appena conseguita (devo ammettere che dopo questa ennesima supercamminata per di più in montagna ho i polpacci del Rumenigge dei tempi d'oro... in effetti sono pronto per il cammino di Santiago) commetto l'errore fatale: sull'autobus che mi deve riportare a Humahuaca, mi siedo esattamente dietro l'autista.
Così, per vedere meglio.
Ma nella vita ci sono cose che è meglio non sapere, e la verità su quello che succede alla guida di questi autobus è una di queste.
Mai, mai, non fatelo mai: meglio sedersi dietro, rimanere nella vostra beata ignoranza, godersi il panorama senza chiedersi come fa l'autobus a rimanere in carreggiata.
Innanzi tutto, dietro l'autista significa a sinistra, e quindi vedevo ogni volta che abbassavo lo sguardo a quanta distanza (meglio, a quanta non-distanza) la ruota passava dal bordo: mezzo metro mediamente, ma spesso pericolosamente meno, e oltre, senza nessun tipo di protezione, uno strapiombo di decine di metri.

Poi, nei tornanti, l'autista allarga talmente tanto che sembra che la parte anteriore sinistra dell'autobus galleggi nel vuoto...
Poi, l'autista: si distrae spesso e volentieri, guarda l'ora sul cellulare, prende continuamente delle caramelle che ha vicino alla portiera, ma naturalmente vuole ogni volta scegliere il colore e quindi il gusto... E poi si gira a guardare il paesaggio, come se non lo conoscesse. A volte il tipo che controlla e fa i biglietti viene avanti e si mettono a parlare animatamente, e io penso “nonlodistrarrenonlodistrarrenonlodistrarretipregotipregotiprego...”
E poi, la cosa peggiore: l'impresa concorrente, la Panamericana, ha un unico autobus che parte 15 minuti dopo il mio. Ma evidentemente l'autobus è più nuovo o più vuoto, perché dopo una mezz'ora di viaggio l'autista si guarda nervosamente indietro, e lo vede, e anche io con lui: l'autobus giallo di Panamericana ci tallona, e guadagna strada. Il mio pazzo autista comincia a prendere i tornanti senza rallentare, certe volte non entra la seconda e lui si incazza, guarda continuamente indietro, ma non c'è niente da fare, il Panamericano si avvicina sempre di più.
C'è solo una cosa a nostro vantaggio, che probabilmente è quella che ci salva la vita: il Panamericano non potrà mai sorpassarci, su questa pseudostrada.
Ma l'autista pazzo non vuole fare il tappo della situazione, si sente come un pilota di formula 1 con una macchina scarsa ma su un circuito dove non c'è possibilità di superare, è lì che fa sbuffare l'autobus oltre le proprie possibilità meccaniche e gravitazionali.
Va, mentre la gente ogni tanto scende in luoghi dove non c'è assolutamente nulla, all'orizzonte, forse devono fare ancora qualche chilometro a piedi, in salita, e dall'altra parte c'è qualcosa che la visuale dei monti impedisce di vedere.
Ma c'è qualcosa che sbaraglia tutti i piani di vittoria dell'autista: oggi è venerdì, e dalle incredibili scuola d'altura di queste parti escono tutti gli alunni per tornare a casa per in fine settimana, dopo aver dormito a scuola dal lunedì. Entrano decine di bambini, e ad una di queste fermate, per fortuna dopo il passo e quindi nella parte meno brutta della strada, il Panamericano ci sorpassa strombazzando per lo scherno.
Siamo stati battuti, ma almeno ormai non abbiamo niente da perdere. Nell'unica fermata vera e propria che facciamo, un terminal di un paese a metà strada, il Panamericano è già arrivato e gli autisti si scambiano battute complici e amichevoli.
Evidentemente per loro è un gioco.
Per me non lo è stato, stavo quasi per cercarmi una religione, una qualsiasi, giusto per chiedere una grazia. Fortuna non ho fatto in tempo a sceglierne nessuna... Infatti, sorry, ma niente foto, ero troppo occupato a rimanere vivo.
Insomma, se vi dovesse capitare, restate incoscienti e felici e sedetevi dietro, sul folle autobus tra Iruya e Humahuaca.
E comunque, è incredibile come questo paesino rimanga aggrappato tenacemente al mondo esterno, tramite questa unica strada che quando piove non è percorribile, e sicuramente anche quando d'inverno i fiumi sono in piena, visto che la strada li attraversa più volte.